martedì 15 gennaio 2019
Il campo magnetico sta cambiando velocemente
A ritmi molto rapidi, il polo nord magnetico sta migrando dal Canada alla Siberia. La spiegazione scientifica ancora non è chiara, ma gli esperti sono ora costretti ad aggiornare nuovamente World Magnetic Model per la gestione della navigazione
Dal Canada alla Siberia, con ritmi davvero molto rapidi. È così che il polo nord magnetico della Terra si sta muovendo a una velocità di circa 55 chilometri all’anno. Gli esperti ancora non riescono a fornire una spiegazione scientifica chiara del perché il campo magnetico stia cambiando e perché lo stia facendo a velocità così elevata. Per ora si parla solo di ipotesi: questo rapido spostamento potrebbe essere legato probabilmente alle variazioni dei movimenti di ferro fuso che si verificano all’interno del nucleo del nostro pianeta.
Il campo magnetico
Il campo magnetico è fondamentale per la vita sulla Terra: questo fenomeno fisico, infatti, si estende per decine di migliaia di chilometri nello Spazio, originando la magnetosfera, una sorta di scudo che protegge il pianeta sia dai raggi cosmici che dalle radiazioni letali provenienti dal Sole. Il campo magnetico viene prodotto dai movimenti che si verificano all’interno del nucleo, dove il ferro allo stato liquido crea corretti elettriche che generano, appunto, il campo magnetico.
Il World Magnetic Model
Sebbene la comunità scientifica sappia già che non è costante nel tempo, negli ultimi anni il campo magnetico sembra davvero essere molto variabile. Tanto che il prossimo 30 gennaio gli esperti dovranno riunirsi, in via del tutto eccezionale, per aggiornare in fretta il World Magnetic Model, ovvero l’insieme di dati che descrivono il campo magnetico terrestre e rappresentano il riferimento per tutti i sistemi dinavigazione, da quelli a bordo delle navi a Google Maps sugli smartphone. La versione più aggiornata del modello è stata rilasciata nel 2015 e, stando alle previsioni, sarebbe dovuta essere valida fino ad almeno il 2020.
Altre anomalie
Negli ultimi anni, tuttavia, si sono verificate altre anomalie. Per esempio, nel 2016 il satellite dell’Esa Swarm ha monitorato un picco di intensità del campo magnetico nelle profondità in corrispondenza del sud America e dell’Oceano Pacifico. All’inizio del 2018, inoltre, i ricercatori del Noaa e del British Geological Survey di Edimburgo, che stavano eseguendo il controllo annuale dei dati del World Magnetic Model, hanno constatato che il modello era così impreciso da superare il limite accettabile per gli errori di navigazione.
Il polo nord magnetico accelera
“È una situazione davvero interessante”, ha spiegato a Nature Arnaud Chulliat, geomagnetista all’Università del Colorado Boulder e al Noaa. “Cosa sta succedendo oggi?” La risposta, ha spiegato l’esperto, è duplice: per prima cosa, l’impulso del 2016 è arrivato subito dopo l’aggiornamento della versione più recente del World Magnetic Model (2015).
In secondo luogo, il movimento del polo nord magnetico si modifica in modi imprevedibili da quando è stato misurato per la prima volta nel 1831 da James Clark Ross. Negli anni Novanta, infatti, la sua velocità di spostamento è aumentata notevolmente, passando da circa 15 chilometri all’anno a circa i 55 chilometri all’anno attuali. Nel 2018, inoltre, il polo magnetico ha superato la linea internazionale del cambio di data e, attualmente, sta puntando dritto alla Siberia.
L’ipotesi
Secondo gli esperti, una spiegazione per questo aumento di velocitàdi spostamento del polo nord magnetico potrebbe essere riconducibile a un getto ad alta velocità di ferro liquido nelle profondità del pianeta, in corrispondenza del Canada. “Il getto sembra indebolire il campo magnetico sotto il Canada”, ha spiegato Phil Livermore, geomagnetista dell’Università di Leeds (Regno Unito). “La posizione del polo nord magnetico sembra essere governata da due grandi campi magnetici, uno sotto il Canada e uno sotto la Siberia”, ha concluso l’esperto. “E la Siberia sta vincendo questa sfida”.
Nessun Impero dura per sempre - Verso un Nuovo Ordine Mondiale?
Giovedì 24 giugno l’associazione Lunaria, in collaborazione con il Master in Educazione alla pace dell’Università degli Studi di Roma Tre, ha invitato un ospite d’eccezione, Johan Galtung, a delineare i possibili scenari geopolitici dopo la fine dell’era imperialistica americana. La conferenza ha avuto luogo presso la facoltà di Lettere di Roma Tre.
Johan Galtung (Oslo, 1930) è il più insigne teorico dei moderni studi sulla pace. Studioso del pensiero gandhiano della nonviolenza, ha sviluppato un approccio teorico-metodologico interdisciplinare e organico, capace di legare economia, sociologia, letteratura, storia delle civiltà e delle religioni. Molti dei suoi saggi e delle sue pubblicazioni sono raccolti nei nove volumi di “Essays on Peace Resarch and Methodology”. Fondatore nel 1959 dell’International Peace Research Institute di Oslo, consigliere presso le Nazioni Unite, professore onorario in numerose università, tra cui la Princeton University e la Freie Universität di Berlino, attualmente titolare della cattedra di Peace Studies presso l’Università delle Hawaii, Galtung ha dato vita al “Journal for Peace Research” e al “Bulletin of Peace Proposals”. La sua decennale attività scientifica e divulgativa gli ha meritato il conferimento, nel 1987, del Right Livelihood Award (sorta di Nobel alternativo per la pace). Direttore di Transcend (www.transcend.org), un’organizzazione internazionale per la risoluzione dei conflitti che opera in tutto il mondo, la sua ultima fatica è “La pace con mezzi pacifici” (“Peace by peaceful means”), pubblicato in Italia da Esperia. Cosmopolita, poliglotta e instancabile viaggiatore, legato all’Italia e alla cultura italiana, Galtung è un grande conoscitore delle opere e del pensiero di Aldo Capitini e Danilo Dolci, che ha frequentato in anni lontani.
La trama della conferenza che ha tenuto per noi si dipana a partire da un nodo centrale che potrebbe, a tutta prima, sembrare paradossale e addirittura provocatorio, la fine dell’imperialismo americano. Galtung ritiene che l’attuale politica estera americana, fondata su una volontà di dominio imperiale e su una logica unilateralistica irrispettosa del diritto internazionale, non possa durare a lungo. Proprio come è avvenuto per l’Unione Sovietica, anche l’impero degli Stati Uniti finirà schiacciato sotto il peso di quelle contraddizioni che emergono, ad esempio, dal suo preoccupante isolamento internazionale. La conclusione di un’epoca segnata dalla potenza economica, culturale, politica e militare americana determinerà la creazione di un nuovo scenario geopolitico.
In questo quadro si inseriscono le analisi, le predizioni, le proposte di Galtung per realizzare un ordine mondiale fondato sulla cooperazione internazionale e sulla pace, in cui il modello federativo possa garantire un riconoscimento reciproco, una condivisione delle forme di sovranità e un dialogo tra diversi. Il tema della riforma strutturale e della democratizzazione delle Nazioni Unite rappresenta dunque la logica conclusione del discorso di Galtung, in cui si intrecciano dimensione descrittiva e dimensione prescrittiva, battute taglienti e analisi illuminanti. La divisione in paragrafi rispecchia l’impostazione della relazione dell’autore, scandita in diverse aree geografico-tematiche, mentre il titolo dei paragrafi rimanda a elementi concettuali centrali di ognuno di essi. Non è stato purtroppo possibile rendere in forma scritta l’appassionante incedere della narrazione di Galtung, che ha tenuto la conferenza in un italiano colto e brioso. L’invito è quello di ascoltarlo personalmente, appena tornerà in Italia. La sua conferenza è stata dedicata alla memoria di Tom Benettolo.
L’Unione Sovietica, gli Stati Uniti
e la teoria della sinergia delle contraddizioni sincronizzate
Gli imperi vengono, gli imperi vanno. Nessun impero dura per sempre. Un impero è un insieme articolato di conquiste militari, dominio politico, sfruttamento economico e penetrazione culturale. Per una corretta definizione di cosa si intenda per impero non ci si può dunque ridurre alla sola dimensione economica. La conferma indiretta di questa teoria viene da un famoso pianificatore del Pentagono [Ralph Peters, colonnello dell’esercito americano durante gli anni ottanta e novanta, NdR], il quale ha affermato che il fine dell’esercito degli Stati Uniti sia quello di rendere il mondo sicuro per favorire, oltre all’interesse commerciale, l’offensiva culturale americana, prima di aggiungere con grande lungimiranza: “Toward this end there will be a fair amount of killing” (“Per questo scopo avremo un numero non trascurabile di morti”).
A tal proposito è bene ricordare che, in seguito a settanta interventi militari a partire dal secondo dopoguerra, gli Stati Uniti si sono resi colpevoli della morte di un numero di persone compreso tra dodici e sedici milioni. L’ultimo di questi interventi, risalente a poche settimane fa, porta il nome di Haiti, il penultimo quello dell’Iraq. Nel 1980 ho sviluppato una teoria sulla fine dell’impero dell’Urss che aveva come fondamento la “sinergia delle contraddizioni sincronizzate” e che prevedeva il crollo sovietico entro dieci anni, preceduto dalla caduta del muro di Berlino. Un impero fortemente militarizzato, che imponga uno strettissimo controllo sociale, è in grado di impedire che una contraddizione generi una condizione di crisi irreversibile, ma quando le contraddizioni aumentano e si crea una correlazione tra di esse, l’unica soluzione è rappresentata da un cambio dell’intero sistema.
Nell’ex-Unione Sovietica erano presenti sei contraddizioni sincronizzate, tra l’Unione Sovietica stessa e gli Stati satellite, tra la nazione russa e le altre nazioni dell’impero, tra aree urbane e rurali, tra borghesia socialista e classe operaia socialista, tra liquidità e mancanza cronica di beni di consumo, tra miti e realtà. Due mesi prima rispetto alla mia previsione, nel novembre del 1989, è stato abbattuto il muro di Berlino, subito dopo si è smembrato l’impero sovietico. Ebbene, al momento gli Stati Uniti hanno ben quindici contraddizioni, che non elencherò in questa sede, ma che potete trovare sul sito di Transcend, l’organizzazione internazionale per la risoluzione dei conflitti di cui sono direttore.
Cinque anni fa, nel 1999, ho azzardato che l’impero americano sarebbe crollato entro venticinque anni. Da quando è stato eletto Bush, ho ridotto di cinque anni questa previsione: nelle teorie sistemiche si direbbe che siamo di fronte a un acceleratore di sistema! A differenza di Bill Clinton, persona brillante che non ha creduto nel ruolo imperiale statunitense e per questo si è occupato di altro alla Casa Bianca, anche di attività non proprio virtuose, trovo che Bush sia profondamente arrogante e ignorante. Meglio ancora, credo che egli sia stupido, esattamente come uno studente di un college che non riesce ad andare oltre una misera c nelle sue votazioni. Naturalmente sto sperando nella sua rielezione! Dietro questa battuta si celano una reale preoccupazione e una piccola provocazione nei confronti di John Kerry, che considero più come una sorta di Bush-light, che come un’alternativa affidabile in grado di segnare una svolta decisiva nei confronti della politica imperialista di Washington.
A questo punto proviamo a intraprendere un rapido giro del mondo per identificare i possibili scenari del cambiamento geopolitico dovuti alla scomparsa dell’attuale forma di dominio imperiale americano, iniziando proprio dagli Stati Uniti.
Golpe fascista o processo di verità e riconciliazione negli Stati Uniti?
Quando, come abbiamo detto, tra quindici o venti anni un presidente americano illuminato si renderà conto dell’inevitabilità, per gli Stati Uniti, di ritirare le truppe di occupazione, di ridurre drasticamente il numero delle basi militari dislocate ai quattro angoli del mondo, di partecipare alle relazioni internazionali come un paese uguale a tutti gli altri e non più sovraordinato a essi, quando insomma si appresterà a modificare radicalmente la politica estera americana, allora prevedo la minaccia incombente di un golpe di stampo fascista e reazionario. Lo scopo di questo colpo di stato, che ricalcherebbe quello sfiorato negli anni 1932-33 durante la presidenza di Roosevelt, sarebbe di riaffermare il dominio imperiale della nazione americana, naturalmente sotto il mandato di Dio come popolo eletto. Ciò che dobbiamo fare fin da ora, dunque, è insegnare al popolo americano i valori dell’uguaglianza, far capire loro che non esistono popoli scelti, che apparteniamo tutti allo stesso pianeta, che solo lavorando insieme possiamo migliorare le cose e che il luogo deputato per un’azione politica comune e condivisa si chiama Onu, a patto che il funzionamento di quest’ultimo non dipenda esclusivamente dal ruolo di un consiglio di sicurezza dotato di poteri esclusivi ed egemonizzato da un’unica superpotenza.
Quando mi reco negli Stati Uniti per tenere conferenze o seminari e faccio circolare la lista dei settanta interventi militari americani cui prima accennavo, mi accorgo che c’è un’ignoranza diffusa su questi temi. Un professore universitario americano mi ha raccontato che nel 1991 aveva chiesto in un test ai propri studenti di indicare tra quali nazioni fosse stata combattuta la guerra del Vietnam. La risposta più frequente era stata tra Corea del Nord e Corea del Sud! Uno studente aveva addirittura sbagliato a scrivere correttamente il nome dei due paesi! Da questo esempio si capiscono molte cose, si capisce ad esempio perché gli americani non abbiano compreso affatto l’11 settembre. Essi non colgono il nesso strettissimo tra economia e guerre. A questo proposito vorrei far notare che uno studioso italiano molto famoso ha scritto un testo, “Impero”, senza analizzare gli interventi militari americani. Naturalmente questo libro, che personalmente non ho apprezzato affatto, è stato entusiasticamente pubblicato negli Stati Uniti dalla Harvard University Press!
Sono convinto che in America ci sia bisogno di un processo pubblico di verità e riconciliazione e che sia assolutamente realistico attendersi questo esito. È importante ricordare che l’emancipazione dei cittadini tedeschi dall’eredità del passato nazista è avvenuta proprio in seguito a un percorso analogo, che essi hanno compiuto non soltanto grazie all’ammissione delle proprie colpe, alla ricompensa economica nei confronti di chi è stato vittima del regime hitleriano, alla confessione totale dei propri crimini, ma anche grazie alla pubblicazione di testi scolastici e alla diffusione di un tipo di narrativa in cui la parola Auschwitz ricorre molto spesso. In questo modo le generazioni che si sono succedute dal dopoguerra hanno avuto la possibilità di capire e di imparare: oggi la Germania è uno Stato democratico e per molti aspetti illuminato. Il nostro compito, oggi, è quello di sostenere con forza le ragioni del dialogo e del confronto culturale in modo tale che anche i nostri amici americani possano svelare la verità che finora è rimasta loro nascosta. Tornando al nostro breve viaggio intorno al mondo, una scossa positiva negli Stati Uniti senza dubbio favorirebbe il processo di liberazione che sta avvenendo in America Latina, processo che vedo destinato alla futura costituzione degli Stati Uniti dell’America Latina: proprio come per gli Stati Uniti, ma senza la bomba atomica!
Spostiamoci ora in Europa occidentale, dove la situazione è particolarmente delicata.
L’effetto euro e il peso genetico del passato coloniale europeo
Gli europei non immaginano quale minaccia rappresenti per gli Stati Uniti il percorso di cementificazione dell’Unione Europea. Essi, preoccupati piuttosto dell’impatto dell’euro sulle rispettive economie nazionali, non conoscono il pericolo dell’introduzione di una moneta continentale sempre più forte e accreditata per gli scambi internazionali rispetto a un dollaro svalutato e soggetto a tendenze inflazionistiche. In America c’è il forte timore che l’euro venga utilizzato come moneta di scambio commerciale, che in euro, ad esempio, venga pagato il petrolio. Saddam Hussein, non a caso, è stato il primo capo di stato a concretizzare le paure americane: un’analisi esauriente della guerra irachena non può prescindere da una chiave di lettura che tenga conto delle relazioni geopolitiche ed economiche tra blocchi continentali.
Per quanto riguarda il futuro europeo, dobbiamo prestare molta attenzione al fatto che ben undici nazioni dell’Unione abbiano avuto un passato coloniale. L’Italia, ad esempio, è stato tra i primi paesi a utilizzare il terrorismo di stato per fini imperialistici. Quando, nel 1911, sono avvenuti bombardamenti e massacri di civili nel deserto libico, l’esercito italiano ha rivendicato il buon esito dell’operazione, sostenendo di aver prodotto un effetto morale molto positivo. Forse anche per l’Italia, almeno nel caso della vicenda libica, c’è bisogno di un processo di verità e riconciliazione. Tenere presente il peso genetico del passato coloniale europeo, allora, è di fondamentale importanza per impedire che si affermi in Europa una linea politica centrata sulla volontà di istituire un contrappeso, o meglio un’alternativa imperialista nei confronti degli Stati Uniti.
L’Europa, invece, deve restare sotto l’ombrello di un Onu riformato. L’entrata a breve termine della Turchia nell’Unione, inoltre, è un fatto molto positivo che può colmare il vuoto di relazioni, la distanza politica e culturale, tra l’Islam e l’Occidente, e può rappresentare l’occasione per un ruolo di pace e dialogo da parte di questo continente. Un altro elemento degno di considerazione è la possibilità di intrattenere buone relazioni con una futura e possibile Unione Russa, in cui per la Cecenia si prospetti una collocazione autonoma e federata, simile a quella del Lussemburgo rispetto all’Unione Europea. Quest’ultima dunque, se si delineasse il quadro che ho appena abbozzato, potrebbe risolvere due seri problemi, il rapporto con il mondo musulmano e quello con le regioni cattolico-ortodosse e potrebbe contare su un futuro più sereno e su un ruolo centrale nelle future relazioni internazionali.
Quando terminerà la fase imperiale americana prevedo che si verrà a costituire una comunità dell’Asia orientale tra paesi confuciani e buddisti, comprendente Giappone, Cina, Vietnam e Corea, forte di una popolazione di oltre un miliardo e mezzo di persone e di una economia dai tassi di crescita notevoli, con i cui futuri stati membri l’Unione Europea ha già intessuto buoni rapporti. Andiamo a verificare ora la situazione mediorientale e quella africana.
Un’autostrada, una ferrovia: un modello federativo per Africa e Medio oriente
L’idea di Abramo di indicare una terra promessa per un popolo eletto è interessante, ma, come dicono gli arabi, nessuno ha firmato questo patto, né esiste una registrazione o un rapporto stenografico in merito! Dico questo per sottolineare la presenza di un asse religioso di stampo fondamentalista tra giudaismo e cristianesimo, un’alleanza pericolosa e molto stretta, la cui voce, sostenuta negli Stati Uniti da una lobby di pressione più forte ancora della National Rifle Association, gode di grande ascolto e considerazione a Washington.
Personalmente credo nella legittimità dell’esistenza di uno stato israeliano e di uno palestinese, ma non ritengo che la soluzione dei “due popoli, due stati” sia la migliore. Tra i due paesi c’è una evidente sproporzione di forze a scapito della Palestina, attestata peraltro dalle risoluzioni Onu numero 242 e 338, che priverebbe di qualsiasi fondamento questo progetto. Dovremmo piuttosto pensare a un modello federativo, a creare cioè una comunità di paesi mediorientali, di cui facciano parte uno stato palestinese riconosciuto, Israele, Siria, Libano, Giordania e Egitto e in cui proprio le nazioni arabe, in particolare quella egiziana, possano rappresentare un legittimo contrappeso rispetto a Israele. Dopo mille anni senza traccia alcuna di una sinergia tra le culture mediorientali, questa soluzione permetterebbe, sul modello della Comunità europea del 1958, l’affermazione di un’economia cooperativa e, nel lungo periodo, della libera circolazione delle persone, oltre che degli investimenti, nell’intera regione.
Un primo segnale per dar corpo al progetto federativo potrebbe essere quello di realizzare un’autostrada che attraversi tutta la zona mediorientale, che parta da Damasco e arrivi al Cairo, passando per Tiberiade, Gerusalemme, Tel Aviv, Gerico, Amman e Akaba. Dal punto di vista politico il tracciato da seguire non può però essere quello, tradizionale, delle relazioni diplomatiche tra i governi della regione interessata. Oggi quei governi sono screditati, non godono di rappresentatività e non possono essere considerati interlocutori affidabili.
Ho tenuto moltissimi seminari, conferenze, incontri in Medio Oriente e ho accumulato una lunga esperienza da cui ho tratto un insegnamento e un’indicazione preziosi. Occorre agire dal basso, coinvolgendo in modo ampio e costante quante più persone e gruppi possibili della società civile mediorientale per prospettare insieme gli scenari di una regione pacificata. Invece di rivolgere lo sguardo al passato, di risvegliare odi e rivalità mai sopiti attribuendo colpe e responsabilità, è necessario elaborare idee costruttive tenendo presente che l’unico collante possibile è la volontà di costruire un futuro comune di pace e cooperazione. Quando ho fatto questo, quando insieme si è discusso su quale futuro si immagina per il Medio Oriente, ho visto occhi lucidi e carichi di speranza. La pace sta nel futuro, non in un dibattito senza uscita sulle colpe del passato. Questo lo sanno soprattutto le giovani generazioni mediorientali, su cui ripongo grandi aspettative.
Il modello federativo che ho proposto per il Medio Oriente vale anche per l’Africa centrale. Qui, dove è molto forte il peso dell’imperialismo europeo, vedo infatti la possibilità della costituzione di una Confederazione Bioceanica, che comprenda Tanzania, Uganda, Ruanda, Burundi, Repubblica democratica del Congo e Congo Brazzaville. Parlo di una confederazione con confini aperti, dall’Oceano Indiano all’Oceano Atlantico, attraversata da una ferrovia, a patto che non venga costruita dagli europei: a essi piuttosto andrebbe cambiata la bussola dal momento che non conoscono la direttrice est-ovest, ma solo quella nord-sud! Per quanto riguarda, inoltre, l’intero continente, dobbiamo sostenere con forza il processo di unità africana, fortemente osteggiato da Europa e Stati Uniti. Noi occidentali non abbiamo alcun diritto di mantenere le divisioni, ma solo il dovere delle scuse, della ricompensa e della verità nei confronti delle popolazioni africane che abbiamo colonizzato e sfruttato.
La Cina, l’India, la Russia, il documento JCS570/2 e la terza guerra mondiale
Spostiamoci ora nella zona più delicata del mondo, quella che comprende Cina, India e Russia. Proprio qui gli Stati Uniti stanno preparando la terza guerra mondiale. Gli strateghi americani della Casa Bianca e del Pentagono seguono una dottrina imperiale che si può sintetizzare in una vecchia formula, risalente al periodo coloniale inglese dei primissimi anni del Novecento: chi domina l’Europa orientale, domina l’Asia centrale; chi domina l’Asia centrale, domina l’isola mondiale (cioè la regione che comprende Europa, Asia e Africa); chi domina l’isola mondiale, domina il mondo.
Questa tesi, evidentemente folle, gode di grande considerazione a Washington. Essa viene riproposta nientemeno che nel più importante e illuminante documento che attesta la linea geopolitica imperialista americana, il documento JCS570/2. Provate a richiederlo presso l’ambasciata o il ministero degli esteri americano, vedrete che faccia faranno! Questo documento rappresenta la risposta all’interrogativo di Roosevelt riguardo a quale linea di politica estera avrebbero dovuto tenere gli Stati Uniti dopo la conclusione della seconda guerra mondiale.
L’esigenza era quella di rendere il mondo sicuro per i commerci americani. A questo scopo furono individuate tre aree geografiche su cui imporre un rigido controllo, l’Europa occidentale, l’Asia orientale e l’America Latina del nord. Il progetto fu concretizzato e formalizzato attraverso la sigla di tre distinti trattati militari, rispettivamente la Nato, l’Ampo e il Tiap. Lo stesso Kerry si è pronunciato a favore del mantenimento di questo sistema di alleanze in modo tale da poter continuare a dominare il mondo con mezzi multilaterali, cioè con l’appoggio degli alleati. Da ciò si capisce il motivo per cui non mi aspetto molto da lui.
Tornando alla regione di Cina, India e Russia appare subito evidente che essa presenta il 40% dell’intera popolazione mondiale e che si situa precisamente nel bel mezzo dell’espansione della Nato, da una parte, e dell’Ampo, dall’altra. Se a questo poi aggiungiamo che gli Stati Uniti stanno prendendo il controllo della regione grazie alla costruzione di numerosi avamposti militari, ad esempio nelle repubbliche islamiche dell’ex-Unione Sovietica, e che i tre paesi in questione prevedibilmente raggiungeranno un accordo per il controllo comune della zona, avremo tutti gli elementi per comprendere la delicatezza della situazione.
Di tutto questo, naturalmente, nessuno sa nulla. I giornalisti invece di promuovere un dibattito, di informare l’opinione pubblica su temi così importanti, preferiscono restare a dormire nel proprio letto, in attesa di essere svegliati dall’esplosione di una bomba e di poter dare così notizia dell’inizio di una nuova guerra. Rimanendo ancora per un momento nell’area asiatica, vorrei accennare al fatto che l’idea di fare dell’Afghanistan e dell’Iraq due stati unitari è un’illusione occidentale. Sul territorio iracheno convivono quattro nazionalità, curda, turcomanna, sunnita e sciita, su quello afgano ben undici. Un modello federale è l’unica alternativa praticabile per questi due paesi.
Una ristrutturazione, un ampliamento, un trasloco: tre riforme per le Nazioni Unite
Da quanto detto finora apparirà chiaro che per prevenire il delinearsi di scenari drammatici legati alla volontà di dominio imperialista, gli Stati Uniti, molto semplicemente, dovrebbero lasciare la gestione del mondo al mondo stesso. Anche se necessita di una profonda riforma, lo strumento per l’auto-governo del mondo si chiama Onu. Penso che una complessiva riarticolazione possa avvenire nell’arco di venti anni e debba fondarsi su tre punti programmatici fondamentali. Il primo di questi riguarda un ripensamento del ruolo e delle funzioni del Consiglio di sicurezza. Innanzitutto è necessario abolire il diritto di veto, un sistema feudale che non ha nulla da spartire con il mondo moderno e grazie a cui gli Stati Uniti, che lo hanno utilizzato 76 volte, hanno potuto paralizzare il funzionamento dell’intera Organizzazione. Si deve inoltre espandere il numero dei paesi membri del Consiglio di sicurezza a 54, cioè il numero degli stati presenti nel Consiglio economico e sociale, l’organo che dirige con buoni risultati le agenzie speciali.
Infine occorre abolire l’articolo 12/A della carta delle Nazioni Unite, che afferma che sui temi di competenza del Consiglio di sicurezza, l’Assemblea generale non ha il diritto di promuovere risoluzioni. Più in generale si può affermare che la presenza di cinque membri permanenti, quattro cristiani e uno confuciano, con diritto di veto all’interno del Consiglio di sicurezza, sia un’assurdità clamorosa agli occhi dei 56 stati musulmani. Noi occidentali potremmo assegnare legittimità e promettere obbedienza a un Consiglio di sicurezza egemonizzato dalla presenza del veto di quattro membri musulmani e uno confuciano? Non credo. Inoltre non vedo come sia possibile che i paesi musulmani rispettino la volontà di un Consiglio che si è reso colpevole della morte di oltre 500mila persone, soprattutto bambini, in seguito all’imposizione delle sanzioni economiche in Iraq. Questo naturalmente non è un argomento a favore di Saddam Hussein, ma solo la constatazione di un fatto drammatico. Per uscire pacificamente dallo stallo e per garantire la piena sovranità irachena credo che si debba affiancare all’Onu, necessario ma non sufficiente, la Conferenza islamica, che conta 56 stati membri e di cui si sente parlare ben poco.
Il secondo punto di riforma riguarda la democratizzazione delle Nazioni Unite. È necessario creare un Parlamento che preveda un rappresentante per ogni milione di cittadini. In questo modo avremmo un Assemblea con 1.250 cinesi, 1.000 indiani, 275 americani, 190 russi, 9 svedesi, forse un pò troppi!, 4 norvegesi e via dicendo. La presenza degli occidentali in un Parlamento siffatto si ridurrebbe al 22%: un buon test per verificare la disposizione ai valori democratici che diciamo di sostenere! La precondizione che sta dietro a questa soluzione prevede che tutti i rappresentanti non siano scelti e designati, bensì vengano eletti in elezioni democratiche, regolari, libere e segrete. Questo elemento fondante consentirebbe, ad esempio, l’avanzamento del processo di democratizzazione in Cina. Se l’intervento militare in Iraq fosse stato discusso in questo Parlamento mondiale, e non al Congresso americano, certamente non sarebbe stato avallato.
Il terzo e ultimo punto di riforma consiste nel trasferimento dell’Onu. Credo che la sede ideale sia Hong Kong, dove si parlano le due lingue più importanti, inglese e cinese, e dove i servizi segreti cinesi sono sicuramente meno dannosi rispetto a quelli americani e inglesi. A me pare che il progetto di riforma che ho appena abbozzato sia pienamente realistico, non è invece realistica la continuazione della politica imperialista americana.
Mr. President, the choice is yours!
Ho da poco scritto il testo per un’inserzione su un’intera pagina del “Washington Post”. Rivolgendomi direttamente al presidente Bush ho espresso un’opinione e un giudizio diffusi sugli Stati Uniti e sulla vicenda irachena. Noi tutti amiamo l’immensa forza creativa e la generosità americana e per questo ci aspettiamo una politica forte, generosa e creativa per l’Iraq. Solo un paese debole non è in grado di cambiare una linea falsa e fallimentare. Desideriamo quindi scuse pubbliche e ufficiali nei confronti del popolo iracheno per aver intrapreso una guerra ingiusta e illegale e ricompense economiche per le vittime del conflitto, il cui costo sia in parte coperto dagli stati che hanno appoggiato l’intervento.
“Mr. President, the choice is yours”, Signor Presidente, a lei la scelta! Se Bush, o chi verrà dopo di lui, avrà il coraggio di cambiare radicalmente la rotta della politica estera americana, guadagnerà rapidamente la stima per gli Stati Uniti e il terrorismo rapidamente cesserà, altrimenti con la perdita definitiva della prima avremo la crescita esponenziale del secondo.
Se, da una parte, devo ammettere di non essere ottimista sul tanto auspicato cambio di registro, dall’altra è doveroso sottolineare che la carta del cambiamento non sta esclusivamente nelle mani dei vertici dell’amministrazione politica e militare di Washington, ma anche in quelle dell’intero popolo americano. Su di esso ripongo le mie speranze. Gli americani hanno l’occasione di liberarsi definitivamente dell’immagine ambigua che gli Stati Uniti hanno agli occhi del mondo, di rendere il loro paese esattamente uguale agli altri 191, di creare e governare insieme a essi un mondo migliore.
Giovedì 24 giugno l’associazione Lunaria, in collaborazione con il Master in Educazione alla pace dell’Università degli Studi di Roma Tre, ha invitato un ospite d’eccezione, Johan Galtung, a delineare i possibili scenari geopolitici dopo la fine dell’era imperialistica americana. La conferenza ha avuto luogo presso la facoltà di Lettere di Roma Tre.
Johan Galtung (Oslo, 1930) è il più insigne teorico dei moderni studi sulla pace. Studioso del pensiero gandhiano della nonviolenza, ha sviluppato un approccio teorico-metodologico interdisciplinare e organico, capace di legare economia, sociologia, letteratura, storia delle civiltà e delle religioni. Molti dei suoi saggi e delle sue pubblicazioni sono raccolti nei nove volumi di “Essays on Peace Resarch and Methodology”. Fondatore nel 1959 dell’International Peace Research Institute di Oslo, consigliere presso le Nazioni Unite, professore onorario in numerose università, tra cui la Princeton University e la Freie Universität di Berlino, attualmente titolare della cattedra di Peace Studies presso l’Università delle Hawaii, Galtung ha dato vita al “Journal for Peace Research” e al “Bulletin of Peace Proposals”. La sua decennale attività scientifica e divulgativa gli ha meritato il conferimento, nel 1987, del Right Livelihood Award (sorta di Nobel alternativo per la pace). Direttore di Transcend (www.transcend.org), un’organizzazione internazionale per la risoluzione dei conflitti che opera in tutto il mondo, la sua ultima fatica è “La pace con mezzi pacifici” (“Peace by peaceful means”), pubblicato in Italia da Esperia. Cosmopolita, poliglotta e instancabile viaggiatore, legato all’Italia e alla cultura italiana, Galtung è un grande conoscitore delle opere e del pensiero di Aldo Capitini e Danilo Dolci, che ha frequentato in anni lontani.
La trama della conferenza che ha tenuto per noi si dipana a partire da un nodo centrale che potrebbe, a tutta prima, sembrare paradossale e addirittura provocatorio, la fine dell’imperialismo americano. Galtung ritiene che l’attuale politica estera americana, fondata su una volontà di dominio imperiale e su una logica unilateralistica irrispettosa del diritto internazionale, non possa durare a lungo. Proprio come è avvenuto per l’Unione Sovietica, anche l’impero degli Stati Uniti finirà schiacciato sotto il peso di quelle contraddizioni che emergono, ad esempio, dal suo preoccupante isolamento internazionale. La conclusione di un’epoca segnata dalla potenza economica, culturale, politica e militare americana determinerà la creazione di un nuovo scenario geopolitico.
In questo quadro si inseriscono le analisi, le predizioni, le proposte di Galtung per realizzare un ordine mondiale fondato sulla cooperazione internazionale e sulla pace, in cui il modello federativo possa garantire un riconoscimento reciproco, una condivisione delle forme di sovranità e un dialogo tra diversi. Il tema della riforma strutturale e della democratizzazione delle Nazioni Unite rappresenta dunque la logica conclusione del discorso di Galtung, in cui si intrecciano dimensione descrittiva e dimensione prescrittiva, battute taglienti e analisi illuminanti. La divisione in paragrafi rispecchia l’impostazione della relazione dell’autore, scandita in diverse aree geografico-tematiche, mentre il titolo dei paragrafi rimanda a elementi concettuali centrali di ognuno di essi. Non è stato purtroppo possibile rendere in forma scritta l’appassionante incedere della narrazione di Galtung, che ha tenuto la conferenza in un italiano colto e brioso. L’invito è quello di ascoltarlo personalmente, appena tornerà in Italia. La sua conferenza è stata dedicata alla memoria di Tom Benettolo.
L’Unione Sovietica, gli Stati Uniti
e la teoria della sinergia delle contraddizioni sincronizzate
Gli imperi vengono, gli imperi vanno. Nessun impero dura per sempre. Un impero è un insieme articolato di conquiste militari, dominio politico, sfruttamento economico e penetrazione culturale. Per una corretta definizione di cosa si intenda per impero non ci si può dunque ridurre alla sola dimensione economica. La conferma indiretta di questa teoria viene da un famoso pianificatore del Pentagono [Ralph Peters, colonnello dell’esercito americano durante gli anni ottanta e novanta, NdR], il quale ha affermato che il fine dell’esercito degli Stati Uniti sia quello di rendere il mondo sicuro per favorire, oltre all’interesse commerciale, l’offensiva culturale americana, prima di aggiungere con grande lungimiranza: “Toward this end there will be a fair amount of killing” (“Per questo scopo avremo un numero non trascurabile di morti”).
A tal proposito è bene ricordare che, in seguito a settanta interventi militari a partire dal secondo dopoguerra, gli Stati Uniti si sono resi colpevoli della morte di un numero di persone compreso tra dodici e sedici milioni. L’ultimo di questi interventi, risalente a poche settimane fa, porta il nome di Haiti, il penultimo quello dell’Iraq. Nel 1980 ho sviluppato una teoria sulla fine dell’impero dell’Urss che aveva come fondamento la “sinergia delle contraddizioni sincronizzate” e che prevedeva il crollo sovietico entro dieci anni, preceduto dalla caduta del muro di Berlino. Un impero fortemente militarizzato, che imponga uno strettissimo controllo sociale, è in grado di impedire che una contraddizione generi una condizione di crisi irreversibile, ma quando le contraddizioni aumentano e si crea una correlazione tra di esse, l’unica soluzione è rappresentata da un cambio dell’intero sistema.
Nell’ex-Unione Sovietica erano presenti sei contraddizioni sincronizzate, tra l’Unione Sovietica stessa e gli Stati satellite, tra la nazione russa e le altre nazioni dell’impero, tra aree urbane e rurali, tra borghesia socialista e classe operaia socialista, tra liquidità e mancanza cronica di beni di consumo, tra miti e realtà. Due mesi prima rispetto alla mia previsione, nel novembre del 1989, è stato abbattuto il muro di Berlino, subito dopo si è smembrato l’impero sovietico. Ebbene, al momento gli Stati Uniti hanno ben quindici contraddizioni, che non elencherò in questa sede, ma che potete trovare sul sito di Transcend, l’organizzazione internazionale per la risoluzione dei conflitti di cui sono direttore.
Cinque anni fa, nel 1999, ho azzardato che l’impero americano sarebbe crollato entro venticinque anni. Da quando è stato eletto Bush, ho ridotto di cinque anni questa previsione: nelle teorie sistemiche si direbbe che siamo di fronte a un acceleratore di sistema! A differenza di Bill Clinton, persona brillante che non ha creduto nel ruolo imperiale statunitense e per questo si è occupato di altro alla Casa Bianca, anche di attività non proprio virtuose, trovo che Bush sia profondamente arrogante e ignorante. Meglio ancora, credo che egli sia stupido, esattamente come uno studente di un college che non riesce ad andare oltre una misera c nelle sue votazioni. Naturalmente sto sperando nella sua rielezione! Dietro questa battuta si celano una reale preoccupazione e una piccola provocazione nei confronti di John Kerry, che considero più come una sorta di Bush-light, che come un’alternativa affidabile in grado di segnare una svolta decisiva nei confronti della politica imperialista di Washington.
A questo punto proviamo a intraprendere un rapido giro del mondo per identificare i possibili scenari del cambiamento geopolitico dovuti alla scomparsa dell’attuale forma di dominio imperiale americano, iniziando proprio dagli Stati Uniti.
Golpe fascista o processo di verità e riconciliazione negli Stati Uniti?
Quando, come abbiamo detto, tra quindici o venti anni un presidente americano illuminato si renderà conto dell’inevitabilità, per gli Stati Uniti, di ritirare le truppe di occupazione, di ridurre drasticamente il numero delle basi militari dislocate ai quattro angoli del mondo, di partecipare alle relazioni internazionali come un paese uguale a tutti gli altri e non più sovraordinato a essi, quando insomma si appresterà a modificare radicalmente la politica estera americana, allora prevedo la minaccia incombente di un golpe di stampo fascista e reazionario. Lo scopo di questo colpo di stato, che ricalcherebbe quello sfiorato negli anni 1932-33 durante la presidenza di Roosevelt, sarebbe di riaffermare il dominio imperiale della nazione americana, naturalmente sotto il mandato di Dio come popolo eletto. Ciò che dobbiamo fare fin da ora, dunque, è insegnare al popolo americano i valori dell’uguaglianza, far capire loro che non esistono popoli scelti, che apparteniamo tutti allo stesso pianeta, che solo lavorando insieme possiamo migliorare le cose e che il luogo deputato per un’azione politica comune e condivisa si chiama Onu, a patto che il funzionamento di quest’ultimo non dipenda esclusivamente dal ruolo di un consiglio di sicurezza dotato di poteri esclusivi ed egemonizzato da un’unica superpotenza.
Quando mi reco negli Stati Uniti per tenere conferenze o seminari e faccio circolare la lista dei settanta interventi militari americani cui prima accennavo, mi accorgo che c’è un’ignoranza diffusa su questi temi. Un professore universitario americano mi ha raccontato che nel 1991 aveva chiesto in un test ai propri studenti di indicare tra quali nazioni fosse stata combattuta la guerra del Vietnam. La risposta più frequente era stata tra Corea del Nord e Corea del Sud! Uno studente aveva addirittura sbagliato a scrivere correttamente il nome dei due paesi! Da questo esempio si capiscono molte cose, si capisce ad esempio perché gli americani non abbiano compreso affatto l’11 settembre. Essi non colgono il nesso strettissimo tra economia e guerre. A questo proposito vorrei far notare che uno studioso italiano molto famoso ha scritto un testo, “Impero”, senza analizzare gli interventi militari americani. Naturalmente questo libro, che personalmente non ho apprezzato affatto, è stato entusiasticamente pubblicato negli Stati Uniti dalla Harvard University Press!
Sono convinto che in America ci sia bisogno di un processo pubblico di verità e riconciliazione e che sia assolutamente realistico attendersi questo esito. È importante ricordare che l’emancipazione dei cittadini tedeschi dall’eredità del passato nazista è avvenuta proprio in seguito a un percorso analogo, che essi hanno compiuto non soltanto grazie all’ammissione delle proprie colpe, alla ricompensa economica nei confronti di chi è stato vittima del regime hitleriano, alla confessione totale dei propri crimini, ma anche grazie alla pubblicazione di testi scolastici e alla diffusione di un tipo di narrativa in cui la parola Auschwitz ricorre molto spesso. In questo modo le generazioni che si sono succedute dal dopoguerra hanno avuto la possibilità di capire e di imparare: oggi la Germania è uno Stato democratico e per molti aspetti illuminato. Il nostro compito, oggi, è quello di sostenere con forza le ragioni del dialogo e del confronto culturale in modo tale che anche i nostri amici americani possano svelare la verità che finora è rimasta loro nascosta. Tornando al nostro breve viaggio intorno al mondo, una scossa positiva negli Stati Uniti senza dubbio favorirebbe il processo di liberazione che sta avvenendo in America Latina, processo che vedo destinato alla futura costituzione degli Stati Uniti dell’America Latina: proprio come per gli Stati Uniti, ma senza la bomba atomica!
Spostiamoci ora in Europa occidentale, dove la situazione è particolarmente delicata.
L’effetto euro e il peso genetico del passato coloniale europeo
Gli europei non immaginano quale minaccia rappresenti per gli Stati Uniti il percorso di cementificazione dell’Unione Europea. Essi, preoccupati piuttosto dell’impatto dell’euro sulle rispettive economie nazionali, non conoscono il pericolo dell’introduzione di una moneta continentale sempre più forte e accreditata per gli scambi internazionali rispetto a un dollaro svalutato e soggetto a tendenze inflazionistiche. In America c’è il forte timore che l’euro venga utilizzato come moneta di scambio commerciale, che in euro, ad esempio, venga pagato il petrolio. Saddam Hussein, non a caso, è stato il primo capo di stato a concretizzare le paure americane: un’analisi esauriente della guerra irachena non può prescindere da una chiave di lettura che tenga conto delle relazioni geopolitiche ed economiche tra blocchi continentali.
Per quanto riguarda il futuro europeo, dobbiamo prestare molta attenzione al fatto che ben undici nazioni dell’Unione abbiano avuto un passato coloniale. L’Italia, ad esempio, è stato tra i primi paesi a utilizzare il terrorismo di stato per fini imperialistici. Quando, nel 1911, sono avvenuti bombardamenti e massacri di civili nel deserto libico, l’esercito italiano ha rivendicato il buon esito dell’operazione, sostenendo di aver prodotto un effetto morale molto positivo. Forse anche per l’Italia, almeno nel caso della vicenda libica, c’è bisogno di un processo di verità e riconciliazione. Tenere presente il peso genetico del passato coloniale europeo, allora, è di fondamentale importanza per impedire che si affermi in Europa una linea politica centrata sulla volontà di istituire un contrappeso, o meglio un’alternativa imperialista nei confronti degli Stati Uniti.
L’Europa, invece, deve restare sotto l’ombrello di un Onu riformato. L’entrata a breve termine della Turchia nell’Unione, inoltre, è un fatto molto positivo che può colmare il vuoto di relazioni, la distanza politica e culturale, tra l’Islam e l’Occidente, e può rappresentare l’occasione per un ruolo di pace e dialogo da parte di questo continente. Un altro elemento degno di considerazione è la possibilità di intrattenere buone relazioni con una futura e possibile Unione Russa, in cui per la Cecenia si prospetti una collocazione autonoma e federata, simile a quella del Lussemburgo rispetto all’Unione Europea. Quest’ultima dunque, se si delineasse il quadro che ho appena abbozzato, potrebbe risolvere due seri problemi, il rapporto con il mondo musulmano e quello con le regioni cattolico-ortodosse e potrebbe contare su un futuro più sereno e su un ruolo centrale nelle future relazioni internazionali.
Quando terminerà la fase imperiale americana prevedo che si verrà a costituire una comunità dell’Asia orientale tra paesi confuciani e buddisti, comprendente Giappone, Cina, Vietnam e Corea, forte di una popolazione di oltre un miliardo e mezzo di persone e di una economia dai tassi di crescita notevoli, con i cui futuri stati membri l’Unione Europea ha già intessuto buoni rapporti. Andiamo a verificare ora la situazione mediorientale e quella africana.
Un’autostrada, una ferrovia: un modello federativo per Africa e Medio oriente
L’idea di Abramo di indicare una terra promessa per un popolo eletto è interessante, ma, come dicono gli arabi, nessuno ha firmato questo patto, né esiste una registrazione o un rapporto stenografico in merito! Dico questo per sottolineare la presenza di un asse religioso di stampo fondamentalista tra giudaismo e cristianesimo, un’alleanza pericolosa e molto stretta, la cui voce, sostenuta negli Stati Uniti da una lobby di pressione più forte ancora della National Rifle Association, gode di grande ascolto e considerazione a Washington.
Personalmente credo nella legittimità dell’esistenza di uno stato israeliano e di uno palestinese, ma non ritengo che la soluzione dei “due popoli, due stati” sia la migliore. Tra i due paesi c’è una evidente sproporzione di forze a scapito della Palestina, attestata peraltro dalle risoluzioni Onu numero 242 e 338, che priverebbe di qualsiasi fondamento questo progetto. Dovremmo piuttosto pensare a un modello federativo, a creare cioè una comunità di paesi mediorientali, di cui facciano parte uno stato palestinese riconosciuto, Israele, Siria, Libano, Giordania e Egitto e in cui proprio le nazioni arabe, in particolare quella egiziana, possano rappresentare un legittimo contrappeso rispetto a Israele. Dopo mille anni senza traccia alcuna di una sinergia tra le culture mediorientali, questa soluzione permetterebbe, sul modello della Comunità europea del 1958, l’affermazione di un’economia cooperativa e, nel lungo periodo, della libera circolazione delle persone, oltre che degli investimenti, nell’intera regione.
Un primo segnale per dar corpo al progetto federativo potrebbe essere quello di realizzare un’autostrada che attraversi tutta la zona mediorientale, che parta da Damasco e arrivi al Cairo, passando per Tiberiade, Gerusalemme, Tel Aviv, Gerico, Amman e Akaba. Dal punto di vista politico il tracciato da seguire non può però essere quello, tradizionale, delle relazioni diplomatiche tra i governi della regione interessata. Oggi quei governi sono screditati, non godono di rappresentatività e non possono essere considerati interlocutori affidabili.
Ho tenuto moltissimi seminari, conferenze, incontri in Medio Oriente e ho accumulato una lunga esperienza da cui ho tratto un insegnamento e un’indicazione preziosi. Occorre agire dal basso, coinvolgendo in modo ampio e costante quante più persone e gruppi possibili della società civile mediorientale per prospettare insieme gli scenari di una regione pacificata. Invece di rivolgere lo sguardo al passato, di risvegliare odi e rivalità mai sopiti attribuendo colpe e responsabilità, è necessario elaborare idee costruttive tenendo presente che l’unico collante possibile è la volontà di costruire un futuro comune di pace e cooperazione. Quando ho fatto questo, quando insieme si è discusso su quale futuro si immagina per il Medio Oriente, ho visto occhi lucidi e carichi di speranza. La pace sta nel futuro, non in un dibattito senza uscita sulle colpe del passato. Questo lo sanno soprattutto le giovani generazioni mediorientali, su cui ripongo grandi aspettative.
Il modello federativo che ho proposto per il Medio Oriente vale anche per l’Africa centrale. Qui, dove è molto forte il peso dell’imperialismo europeo, vedo infatti la possibilità della costituzione di una Confederazione Bioceanica, che comprenda Tanzania, Uganda, Ruanda, Burundi, Repubblica democratica del Congo e Congo Brazzaville. Parlo di una confederazione con confini aperti, dall’Oceano Indiano all’Oceano Atlantico, attraversata da una ferrovia, a patto che non venga costruita dagli europei: a essi piuttosto andrebbe cambiata la bussola dal momento che non conoscono la direttrice est-ovest, ma solo quella nord-sud! Per quanto riguarda, inoltre, l’intero continente, dobbiamo sostenere con forza il processo di unità africana, fortemente osteggiato da Europa e Stati Uniti. Noi occidentali non abbiamo alcun diritto di mantenere le divisioni, ma solo il dovere delle scuse, della ricompensa e della verità nei confronti delle popolazioni africane che abbiamo colonizzato e sfruttato.
La Cina, l’India, la Russia, il documento JCS570/2 e la terza guerra mondiale
Spostiamoci ora nella zona più delicata del mondo, quella che comprende Cina, India e Russia. Proprio qui gli Stati Uniti stanno preparando la terza guerra mondiale. Gli strateghi americani della Casa Bianca e del Pentagono seguono una dottrina imperiale che si può sintetizzare in una vecchia formula, risalente al periodo coloniale inglese dei primissimi anni del Novecento: chi domina l’Europa orientale, domina l’Asia centrale; chi domina l’Asia centrale, domina l’isola mondiale (cioè la regione che comprende Europa, Asia e Africa); chi domina l’isola mondiale, domina il mondo.
Questa tesi, evidentemente folle, gode di grande considerazione a Washington. Essa viene riproposta nientemeno che nel più importante e illuminante documento che attesta la linea geopolitica imperialista americana, il documento JCS570/2. Provate a richiederlo presso l’ambasciata o il ministero degli esteri americano, vedrete che faccia faranno! Questo documento rappresenta la risposta all’interrogativo di Roosevelt riguardo a quale linea di politica estera avrebbero dovuto tenere gli Stati Uniti dopo la conclusione della seconda guerra mondiale.
L’esigenza era quella di rendere il mondo sicuro per i commerci americani. A questo scopo furono individuate tre aree geografiche su cui imporre un rigido controllo, l’Europa occidentale, l’Asia orientale e l’America Latina del nord. Il progetto fu concretizzato e formalizzato attraverso la sigla di tre distinti trattati militari, rispettivamente la Nato, l’Ampo e il Tiap. Lo stesso Kerry si è pronunciato a favore del mantenimento di questo sistema di alleanze in modo tale da poter continuare a dominare il mondo con mezzi multilaterali, cioè con l’appoggio degli alleati. Da ciò si capisce il motivo per cui non mi aspetto molto da lui.
Tornando alla regione di Cina, India e Russia appare subito evidente che essa presenta il 40% dell’intera popolazione mondiale e che si situa precisamente nel bel mezzo dell’espansione della Nato, da una parte, e dell’Ampo, dall’altra. Se a questo poi aggiungiamo che gli Stati Uniti stanno prendendo il controllo della regione grazie alla costruzione di numerosi avamposti militari, ad esempio nelle repubbliche islamiche dell’ex-Unione Sovietica, e che i tre paesi in questione prevedibilmente raggiungeranno un accordo per il controllo comune della zona, avremo tutti gli elementi per comprendere la delicatezza della situazione.
Di tutto questo, naturalmente, nessuno sa nulla. I giornalisti invece di promuovere un dibattito, di informare l’opinione pubblica su temi così importanti, preferiscono restare a dormire nel proprio letto, in attesa di essere svegliati dall’esplosione di una bomba e di poter dare così notizia dell’inizio di una nuova guerra. Rimanendo ancora per un momento nell’area asiatica, vorrei accennare al fatto che l’idea di fare dell’Afghanistan e dell’Iraq due stati unitari è un’illusione occidentale. Sul territorio iracheno convivono quattro nazionalità, curda, turcomanna, sunnita e sciita, su quello afgano ben undici. Un modello federale è l’unica alternativa praticabile per questi due paesi.
Una ristrutturazione, un ampliamento, un trasloco: tre riforme per le Nazioni Unite
Da quanto detto finora apparirà chiaro che per prevenire il delinearsi di scenari drammatici legati alla volontà di dominio imperialista, gli Stati Uniti, molto semplicemente, dovrebbero lasciare la gestione del mondo al mondo stesso. Anche se necessita di una profonda riforma, lo strumento per l’auto-governo del mondo si chiama Onu. Penso che una complessiva riarticolazione possa avvenire nell’arco di venti anni e debba fondarsi su tre punti programmatici fondamentali. Il primo di questi riguarda un ripensamento del ruolo e delle funzioni del Consiglio di sicurezza. Innanzitutto è necessario abolire il diritto di veto, un sistema feudale che non ha nulla da spartire con il mondo moderno e grazie a cui gli Stati Uniti, che lo hanno utilizzato 76 volte, hanno potuto paralizzare il funzionamento dell’intera Organizzazione. Si deve inoltre espandere il numero dei paesi membri del Consiglio di sicurezza a 54, cioè il numero degli stati presenti nel Consiglio economico e sociale, l’organo che dirige con buoni risultati le agenzie speciali.
Infine occorre abolire l’articolo 12/A della carta delle Nazioni Unite, che afferma che sui temi di competenza del Consiglio di sicurezza, l’Assemblea generale non ha il diritto di promuovere risoluzioni. Più in generale si può affermare che la presenza di cinque membri permanenti, quattro cristiani e uno confuciano, con diritto di veto all’interno del Consiglio di sicurezza, sia un’assurdità clamorosa agli occhi dei 56 stati musulmani. Noi occidentali potremmo assegnare legittimità e promettere obbedienza a un Consiglio di sicurezza egemonizzato dalla presenza del veto di quattro membri musulmani e uno confuciano? Non credo. Inoltre non vedo come sia possibile che i paesi musulmani rispettino la volontà di un Consiglio che si è reso colpevole della morte di oltre 500mila persone, soprattutto bambini, in seguito all’imposizione delle sanzioni economiche in Iraq. Questo naturalmente non è un argomento a favore di Saddam Hussein, ma solo la constatazione di un fatto drammatico. Per uscire pacificamente dallo stallo e per garantire la piena sovranità irachena credo che si debba affiancare all’Onu, necessario ma non sufficiente, la Conferenza islamica, che conta 56 stati membri e di cui si sente parlare ben poco.
Il secondo punto di riforma riguarda la democratizzazione delle Nazioni Unite. È necessario creare un Parlamento che preveda un rappresentante per ogni milione di cittadini. In questo modo avremmo un Assemblea con 1.250 cinesi, 1.000 indiani, 275 americani, 190 russi, 9 svedesi, forse un pò troppi!, 4 norvegesi e via dicendo. La presenza degli occidentali in un Parlamento siffatto si ridurrebbe al 22%: un buon test per verificare la disposizione ai valori democratici che diciamo di sostenere! La precondizione che sta dietro a questa soluzione prevede che tutti i rappresentanti non siano scelti e designati, bensì vengano eletti in elezioni democratiche, regolari, libere e segrete. Questo elemento fondante consentirebbe, ad esempio, l’avanzamento del processo di democratizzazione in Cina. Se l’intervento militare in Iraq fosse stato discusso in questo Parlamento mondiale, e non al Congresso americano, certamente non sarebbe stato avallato.
Il terzo e ultimo punto di riforma consiste nel trasferimento dell’Onu. Credo che la sede ideale sia Hong Kong, dove si parlano le due lingue più importanti, inglese e cinese, e dove i servizi segreti cinesi sono sicuramente meno dannosi rispetto a quelli americani e inglesi. A me pare che il progetto di riforma che ho appena abbozzato sia pienamente realistico, non è invece realistica la continuazione della politica imperialista americana.
Mr. President, the choice is yours!
Ho da poco scritto il testo per un’inserzione su un’intera pagina del “Washington Post”. Rivolgendomi direttamente al presidente Bush ho espresso un’opinione e un giudizio diffusi sugli Stati Uniti e sulla vicenda irachena. Noi tutti amiamo l’immensa forza creativa e la generosità americana e per questo ci aspettiamo una politica forte, generosa e creativa per l’Iraq. Solo un paese debole non è in grado di cambiare una linea falsa e fallimentare. Desideriamo quindi scuse pubbliche e ufficiali nei confronti del popolo iracheno per aver intrapreso una guerra ingiusta e illegale e ricompense economiche per le vittime del conflitto, il cui costo sia in parte coperto dagli stati che hanno appoggiato l’intervento.
“Mr. President, the choice is yours”, Signor Presidente, a lei la scelta! Se Bush, o chi verrà dopo di lui, avrà il coraggio di cambiare radicalmente la rotta della politica estera americana, guadagnerà rapidamente la stima per gli Stati Uniti e il terrorismo rapidamente cesserà, altrimenti con la perdita definitiva della prima avremo la crescita esponenziale del secondo.
Se, da una parte, devo ammettere di non essere ottimista sul tanto auspicato cambio di registro, dall’altra è doveroso sottolineare che la carta del cambiamento non sta esclusivamente nelle mani dei vertici dell’amministrazione politica e militare di Washington, ma anche in quelle dell’intero popolo americano. Su di esso ripongo le mie speranze. Gli americani hanno l’occasione di liberarsi definitivamente dell’immagine ambigua che gli Stati Uniti hanno agli occhi del mondo, di rendere il loro paese esattamente uguale agli altri 191, di creare e governare insieme a essi un mondo migliore.
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